Crisi.

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Il mio amico Bugo ci ha fatto una canzone, il telegiornale non parla d'altro, ovunque angoscia, disperazione, gente che non sa come arrivare a fine mese, e dall'altra c'è chi si ostina a negarla, a proclamare ottimismo dicendo che non ci sarà una finanziaria correttiva, e poi vara una finanziaria da 24 miliardi di euro. Quasi cinquantamilamiliardi delle vecchie lirette. Insomma, c'è crisi. Eppure. Eppure qualcosa non mi torna, anzi meglio, non mi è mai tornato. Perché oramai, diciamocelo, di crisi ne ho viste a pacchi. Le torri gemelle, la bolla delle dot com, la stagnazione degli anni novanta, mai un momento di pace. Tutto vero, per carità, negare la crisi serve solo a chi non ha intenzione di fare niente per risolverla, per tornaconto, incapacità, indifferenza o un interessante mix delle tre. Però ieri passavo per via Gioberti, in bicicletta. Ora, via Gioberti è il luogo della mia adolescenza, uno dei posti che conosco e amo di più, ricordo ogni singola botteguccia: il mesticatore (e a chi non è di Firenze come farò a spiegare cos'è una mesticheria? Mah, vedremo), il corniciaio, il ferramenta, il pizzicagnolo (che somiglia all'alimentari ma non è la stessa cosa). Ricordo i negozi modesti, ricchi solo della loro mercanzia, le scaffalature arrangiate, i bar con i distributori di terribili palline di gomma da masticare all'ingresso e la spuma nei buchi tondi per le bottiglie. Ricordo quei bicchieri tutto vetro che per levarti la sete ne dovevi bere tre o quattro, i tavoli di formica, gli oggetti ancora legati al loro modello d'uso. Ricordo la cucina di mia nonna, i coltelli di ferro nero, pesantissimi, talmente usati che era impossibile determinarne l'età. Probabilmente se li passavano da generazioni. Mia nonna che si cuciva i vestiti da sola, coi cartamodelli, e faceva il caffè con metà orzo, per risparmiare. Oggi in via gioberti il mesticatore non c'è più, e nemmeno i bar con i tavoli di formica. Al loro posto negozi alla moda dai prezzi improponibili e locali per aperitivi sciccosi che se entri con la gazzetta ti buttano fuori e un cappuccino non se ne parla. Eppure oggi c'è crisi, e allora non c'era. Poi penso alla repubblica di Weimar e al fatto che nell'Agosto del 1923 un dollaro americano valeva 4.200.000.000.000 di marchi, e il primo Dicembre dello stesso anno viene coniato il nuovo marco, e un dollaro vale 4 marchi e 20. Cos'era cambiato? Nulla. Stessa economia, stesse fabbriche, stessi operai, stesse risorse. Ma il paese aveva ripreso fiducia in se stesso. Lo aveva fatto confidando in un pazzo furioso, è vero, ma la fiducia in un cambiamento possibile era tornata. Ora, sono dieci anni che governi di destra, da questa parte e dall'altra dell'oceano, ci inculcano ogni genere di terrore. I terroristi le bombe l'antrace l'influenza aviaria quella suina gli extracomunitari i turchi e chi più ne ha più ne metta. Perché governare una popolazione spaventata è più facile: uno che ha paura mica va tanto per il sottile. E' quando le cose vanno bene che la gente si interessa dei dettagli. Il terrore uccide la speranza, la fiducia in un futuro possibile. Ma senza fiducia, che non è l'ottimismo di plastica del venditore di aspirapolveri ma la consapevolezza di sé e del fatto che il cambiamento è possibile, la crisi è prevista, inevitabile, certa. Questa è la responsabilità più grave di questo governo: la perdita della speranza in un futuro realizzabile, sostituita dalla illusione di un futuro da tronisti o da veline. Una idea fortemente religiosa, quella di un paradiso catodico contrapposto ad un inferno che si consuma nei call center e nelle fabbriche dismesse, l'idea che il bene e il male siano fuori di noi, che per quanto uno sia in gamba è sempre la furbizia e il servilismo che valgono, le massaggiatrici in parlamento, le cortigiane a Palazzo.

Un mio amico, quando anni fa tentavo maldestramente di giocare a calcio soleva dirmi "con te bisognerebbe ripartire dai fondamentali", sottolinenando una imperizia che non era correggibile se non ripartendo da zero. Poi per fortuna mi ruppi un menisco, con grande sollievo mio e di tutti i miei ex compagni di squadra.

Ecco, la mia idea è che se non si riparte dai fondamentali, dai coltelli di mia nonna passati di generazione in generazione, dai tavoli di formica, dalla umiltà e dignità del lavoro, dalla quotidianità, non se ne esce.


Chissà che alla fine non impariamo qualcosa.