La miseria dell'abbondanza

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E' da quando ho cominciato a scrivere qui che ogni tanto torna fuori questa idea di come il mondo sia cambiato dai tempi della mia infanzia, e mi chiedo se il cambiamento che io percepisco come peggiorativo lo sia realmente, o se si tratti semplicemente di nostalgia per i bei tempi andati, segno dell'età che avanza inesorabile, come peraltro mi fanno ben notare in altri luoghi. Non so, ma certo la differenza tra l'oggi e il prima è tanto profonda e ramificata in ogni aspetto del vivere che per trarre una conclusione è necessario cercare di capire un po' meglio da cosa derivi questa sensazione. Una delle cose che più sono cambiate, secondo me, è il significato di miseria. Una volta, la miseria era l'assenza di un bene materiale: un negozio misero era un negozio con poca merce, mobili vecchi, cose  che denotavano una mancanza di mezzi, di risorse. Per questo la prima volta che andai negli stati uniti rimasi tanto sconvolto: in una città come New York esistevano esercizi commerciali, perlopiù di grandi catene ma non solo, che certamente incassavano moltissimo e tuttavia erano trasandati, sporchi, approssimati, con tutto lo spazio disponibile riservato alla merce e solo a quella. Erano negozi altrettanto miseri, anzi di più, dei negozietti di paese della mia infanzia trascorsa nei mesi estivi nella campagna pistoiese o delle mercerie abbandonate nei lunghi pomeriggi passati a girellare tra le strade di novoli, che nei primi anni settanta era estremo periferico, per dirla alla Cattafi, ma di una miseria diversa, irredimibile perché non contiene più, in sé, la speranza in un cambiamento possibile. Il negoziante di periferia della mia infanzia ambiva ad un negozio più bello, pulito, spazioso, e se un giorno gli affari avessero girato bene certo lo avrebbe realizzato e tenuto, nella gran maggioranza dei casi, persino meglio del salotto di casa. Il lavoro infatti non era solo un mezzo per guadagnare del denaro, ma anche e soprattutto un modo per realizzarsi, un luogo in cui mostrarsi pubblicamente, un modo per coltivare la speranza nel domani. Oggi da Blockbuster sono restato incantato, come ogni volta, da quella identica miseria, da quel senso di rovina che aleggia sempre più, in Italia come nel mondo, nei nonluoghi della grande distribuzione. Dietro la facciata posticcia di lustrini e paillettes, magazzini immondi, terminali preistorici, sporcizia, mobili rotti che nessuno aggiusterà mai perché nessuno può sentire suo quel luogo, che appartiene infatti ad una entità astratta, inconoscibile, aliena. Un mondo di sottolavori sottopagati, intercambiabili, a bassissimo livello di specializzazione, con routine alienanti, corsi di avviamento, training aziendali, statistiche di valutazione e comunque precari, a tempo, a contratto, a chiamata. Posti indesiderabili in cui anche chi dovesse avere le qualità per restare ed il desiderio di farlo, resta di passaggio, a sua volta indesiderato, tollerato al più. Lavori come luoghi di transito, che appartengono a tutti, ovvero a nessuno, e di conseguenza squallidi, precocemente invecchiati, vandalizzati giorno per giorno dall'incuranza. Luoghi pieni di merce e vuoti di gioia, di cultura, di amore per ciò che si fa, qualsiasi cosa sia. Ovvio, non è certo solo colpa di chi ci lavora, ridotto a numero all'interno di una struttura dalle dimensioni incalcolabili. Quando lavori in una azienda di dieci persone e sei l'ultimo, sei il decimo: il tempo per arrivare al terzo posto è calcolabile, misurabile, rapportabile alle ambizioni e alle speranze di ognuno, il rapporto con chi siede al primo posto e decide cosa si fa il giorno dopo è un rapporto umano, se pur di lavoro, e lui stesso è parte di quella azienda, decide del tuo futuro ma anche del proprio. Se in una multinazionale sei il ventimilaequalcosesimo, sei una formica operaia e nient'altro, la scalata risulta inaccessibile, la speranza estinta, la tua vita viene decisa da persone che non vedrai mai e per le quali non esisti se non come statistica, come percentuale nei costi e ricavi, e a loro volta spesso altrettanto precarie nell'atteggiamento se non nella condizione economica, legate ai risultati raggiunti, pronte a cambiare azienda alla prima occasione, a volte con buonuscite spropositate, altre con le loro cose in una scatola di cartone. Nel mondo capovolto, l'abbondanza nasconde la miseria morale, l'irresponsabilità condivisa.